venerdì, Aprile 19, 2024
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I Maya: il popolo dei misteri irrisolti

Mentre in Europa, Asia e Africa vivevano varie culture che in un modo o nell’altro entravano in contatto fra di loro, in quella che oggi viene chiamata America Latina si sviluppava un mondo parallelo, sconosciuto al resto del mondo fino al 1492, ovvero l’anno dello sbarco di Cristoforo Colombo.

Questa data segna, infatti, la scoperta di questo nuovo continente e quindi l’inizio della storia di una nuova realtà che avrebbe ben presto influenzato il resto del mondo. Verrà considerato parte dell’India fino al 1502, quando Amerigo Vespucci comprese che era invece un continente sconosciuto, che per questo in sua memoria venne chiamato “America”. Popolato da genti che prosperarono per secoli e diedero vita a fiorenti civiltà, l’America fu culla di numerose civiltà. Tra queste culture “precolombiane”, ovvero già esistenti prima dell’arrivo di Colombo, la più enigmatica e misteriosa è sicuramente quella dei Maya, una popolazione giunta da Nord intorno al 2000 a.C. che abbandonò lo stile di vita nomade e si stanziò nell’area compresa tra lo Yucatan, oggi il Messico, e l’odierno Guatemala. Lo Yucatan, grande penisola nel golfo del Messico, ha coste aride e piatte, è montuoso ed è coperto da una fitta foresta. Sembra che il suo nome nasca da un malinteso tra gli Spagnoli e gli Indios. Quando, infatti, gli Spagnoli chiesero quale fosse il nome della terra, questi risposero “Ciu-ca-than”, cioè “Non vi capiamo”. Da allora gli spagnoli chiamarono quel territorio Yucatan! L’espansione dei Maya, nel territorio, non avvenne come un Impero unitario, ma attraverso la fondazione di numerose città-stato, le quali, nonostante la lingua e la religione comune, rimanevano indipendenti tra di loro, anche se non pare che siano mai sorte grandi rivalità o guerre interne come invece era accaduto nell’Antica Grecia.

Le più importanti erano Chichén-Itzà, Ticàl, Copàn, Palenque, Uxmal. Tra queste la città-stato più grande era Chichèn-Itzà, con oltre 500.000 abitanti, perciò per quel periodo una delle città più importanti del mondo. Il suo nome significa “Bocca del pozzo dei maghi dell’acqua” e i suoi monumenti più importanti erano: il tempio delle mille colonne, il tempio dei guerrieri, la Piramide di Kul-Kul-Kan, il tempio di Venere, il Tempio dei giaguari, l’osservatorio astronomico, il tempio di Akab-dzib e infine il Pozzo dei sacrifici. All’interno di questi centri urbani, la vita era regolata da un’élite, cioè la classe dominante, di nobili e sacerdoti, al di sopra dei quali stava un re che veniva venerato come un semidio. Il resto dei comuni cittadini era composto perlopiù da coltivatori di mais (coltura che era ancora sconosciuto nel resto del mondo), artigiani e mercanti, i quali, nonostante l’assenza di cavalli (perché non esistevano in America), riuscirono a tracciare fitte rotte commerciali su ampie distanze. Fagioli, cacao, mais erano gli elementi alla base della vita quotidiana e del commercio dei Maya, i quali erano anche abili incisori, come dimostrano i numerosi reperti su pietra giunti da iscrizioni e templi, e intagliatori di oro, metallo che però ebbe un valore esclusivamente decorativo poiché nella loro cultura non era contemplata la moneta ma il metodo di pagamento più frequente erano i semi di cacao. Le guerre non erano molto frequenti, ma quando si decideva di espandersi o proteggersi da un nemico, i nobili che detenevano il potere militare si mettevano al comando di grandi eserciti, composti da soldati e comuni cittadini chiamati alle armi, e si lanciavano nel combattimento equipaggiati di archi, frecce, lance e rudimentali spade.

La religione era uno dei valori fondamentali, guida necessaria che regolava il corso di tutta la vita e per secoli i Maya si impegnarono nel costruire monumenti e palazzi in onore di divinità della natura che favorissero la loro felicità. Per affermare il loro credo realizzarono delle piramidi che furono erette in onore del dio Sole, molto simili a quelle presenti in Egitto e in Mesopotamia, cosa che ancora oggi crea dubbi e perplessità tra gli studiosi. I Maya pensavano che il loro mondo fosse un intermezzo tra il Cielo delle Divinità e l’Inferno, dimora di mostri spaventosi che portavano siccità e carestie; gli dei dovevano dunque essere propiziati ogni giorno con rituali e offerte che favorissero la benevolenza divina e l’arrivo delle piogge, elemento fondamentale per la vita. La lotta tra bene e male, dunque, veniva semplificata in un combattimento tra forze favorevoli alla vita come terra, pioggia, piante, acqua ecc.… ed elementi di distruzione come terremoti, carestie, siccità…. I Maya sacrificavano vittime umane ai loro dei, come Chac Mool, il dio della pioggia. Nella loro religione erano anche molto importanti i colori e infatti i Maya si dipingevano il corpo a seconda di vari eventi e per i significati del colore: Il blu è il simbolo degli dei, era ottenuto da un minerale e i Maya si tingevano il corpo con esso durante i giorni sacri. Il Nero era simbolo della guerra perché nere erano le frecce; si otteneva dal carbone. Il giallo era simbolo del cibo, perché giallo era il mais. Era ottenuto dai minerali di ferro. Infine il rosso era simbolo della vita; si ottiene dalla noce del Brasile, da un mollusco e dalle ali delle coccinelle.

I Maya furono tra l’altro anche gli inventori del loro sport “sacro”: Pok-A-Tok. Il suo nome deriva dal suono che fa la palla di gomma a contatto con il terreno. Ma come si giocava? Le squadre erano composte da sette giocatori. Ogni giocatore tentava di infilare la palla di gomma in un anello di pietra, posto sulla parete. Ma era molto difficile riuscirci, perché l’anello di pietra era molto stretto, inoltre era molto in alto e per di più i giocatori non potevano usare le mani, ma potevano toccare la palla solo con fianchi, gomiti, ginocchia e testa. Insomma, era praticamente impossibile! Una delle tante contraddizioni che la storia ci ha riportato su questo popolo riguarda il loro sviluppo tecnologico e culturale: se da un lato infatti non si ebbero mai grandi innovazioni in campo agricolo, come l’aratro, e tecnologico, come fecero a diventare così grandi coltivatori e, soprattutto, provetti matematici e astronomi? Il forte rapporto tra Maya e divinità celesti è infatti frutto di un’ampia conoscenza all’avanguardia dell’astronomia: senza telescopi e strumenti sofisticati, erano riusciti a stilare un calendario solare molto più preciso di quello europeo composto da 365, 242 giorni, sbagliando di appena 17 secondi sulla reale lunghezza del periodo di rotazione della Terra! Il loro calendario conta 19 mesi formati da venti giorni: Pop, Uo, Zip, Zotz, Tezc, Xul Yaxkin, Mol, Chen, Yax, Zak, Ceh, Mac, Uayeeb, Cumhu, Zayab, Pax, Muan, Kankin, più 5 giorni che i Maya ritenevano sfortunati. I numeri maya erano rappresentati con punti che simboleggiavano un’unita e ogni cinque unità si formava una riga; lo zero era rappresentato con una conchiglia. Grazie a queste misurazioni, i Maya ricavavano premonizioni su eventi atmosferici ed eventi futuri: celeberrima la profezia che avrebbe voluto la fine del mondo nel 2012, anno del diluvio che avrebbe spazzato via l’umanità dalla faccia del pianeta. Fortunatamente queste previsioni non furono accurate quanto i loro calcoli astronomici! Se molti aspetti della vita e della cultura Maya presentano ancora parecchie lacune e casi irrisolti, il declino della civiltà rimane tuttavia un vero e proprio mistero. Nel 1500 gli Spagnoli scoprirono e soggiogarono questa popolazione nascosta nella giungla, ma ormai era solo un ricordo della magnificenza che aveva vissuto nel passato. Dagli studi e i ritrovamenti archeologici, infatti, si è calcolato che tra il 760 e il 930 d.C. una delle più grandi civiltà della Terra entrò in un declino tanto veloce quando inspiegabile: le grandi città divennero in pochi decenni cumuli di macerie e gli abitanti degli altipiani migrarono o sparirono nel nulla. Una scoperta straordinaria accaduta qualche anno fa è quella di William Gadoury, studente canadese di 15 anni, che trovò un’antica città maya stando comodamente seduto tra le quattro mura della propria cameretta, nella sua abitazione di Saint-Jean-de-Martha, una cittadina vicino a Montreal di circa 60 mila abitanti, e ha formulato una teoria singolare.  L’intuizione che ebbe William, il primo ad aver pensato a questo, parte dalla riflessione che “I siti nei quali i Maya costruivano le città, rispecchiano la mappa delle costellazioni”. William ha quindi analizzato 22 costellazioni Maya e, incrociando la loro disposizione sulle mappe, ha scoperto che a ogni stella corrisponde una città. A tutte tranne che a una. In una costellazione c’erano tre stelle, ma solo due corrispondevano a città Maya conosciute. Il ragazzo ha quindi previsto che doveva esserci una città non ancora scoperta e la sua posizione doveva coincidere proprio con quella della stella. Le immagini satellitari dell’Agenzia Spaziale Canadese hanno confermato la sua ipotesi: nel luogo indicato da William ci sono figure geometriche che richiamano la forma di un’antica piramide e di una trentina di edifici. Il ragazzo ha battezzato la città ” Kaakchi”, che nel linguaggio dei Maya significa “bocca di fuoco”. Molti misteri dei Maya sono però ancora irrisolti, come il loro inspiegabile abbandono delle città. Dopo l’anno 1000, infatti, tre milioni di Maya lasciarono le proprie città senza alcun motivo apparente: non ci furono epidemie, invasioni militari o catastrofi naturali … Allora perché? Oppure: i Maya non conoscevano il popolo Inca, che però abitava molto vicino a loro… Perché? E anche: avevano un calendario perfetto, ma non conoscevano ruota e aratro, non sfruttavano i metalli, non navigavano al largo delle coste… Perché? Questi enigmi sono rimasti ancora irrisolti anche perché, come affermato da molti studiosi, solo il dieci per cento dei monumenti sono stati ritrovati, mentre il resto è ancora nascosto nella foresta tropicale. Chissà quali rivelazioni, allora, ancora ci aspettano su questo popolo intrigante! E del resto “i Maya rimangono misteriosi, ma questo è ciò li rende ancora più affascinanti…”

 

Santi Scarpaci

Classe II, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.

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