giovedì, Aprile 25, 2024
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GLOBALIZZAZIONE DEL GUSTO ED IMPATTO AMBIENTALE

Fast food, parola chiave, dagli effetti devastanti, se inserita in un quadro di sostenibilità e impatto ambientale. Si parla di cibo, di abitudini alimentari, dannose sia per la nostra salute che per l’ambiente. Cibo, cultura, natura costituiscono gli anelli di una catena relazionale, modificatasi nel tempo, grazie alle innovazioni tecnologiche che hanno annullato le differenze a vantaggio della globalizzazione. Secondo il sociologo americano McLuhan “Il mondo è come un villaggio globale e quindi l’alimentazione da un lato all’altro del pianeta è sempre più simile”.

I diversi cambiamenti urbani, sociali e spaziali non solo hanno imposto all’uomo una modifica del tempo travolto nelle attività quotidiane, ma hanno cancellato il significato simbolico della tavola, non più strumento di trasmissione del codice gastronomico della regione di appartenenza. Cambiano i gusti, mutano le tecniche, si altera il rapporto con la natura. Impatto ambientale e sostenibilità vogliono sottolineare quanto le nuove tendenze nel settore alimentare possono annullare forme di equilibro che con fatica i nostri avi sono riusciti a raggiungere.

L’hamburger, piatto tipico dei fast food, viene additato come l’emblema di modifiche nei processi di produzione agricola e dell’allevamento animale. Si parla di “hamburgerizzazione”, termine usato per sottolineare lo sradicamento di alberi per la realizzazione di pascoli votati all’allevamento di bovini da carne destinati alle multinazionali operanti nel settore dei fast food. Per gli hamburger, ogni azienda operante nel settore, richiede annualmente seicentomila tonnellate di carne, cui corrispondono circa sei milioni di bovini che costituiscono un quantitativo enorme di mandrie da allevare. Per ottenere una caloria di carne, necessitano dieci calorie di cereali (Formica, 2003, pp. 49-51) e nelle aree più ricche (Italia compresa) e con minor spazio a disposizione, l’allevamento praticato è di tipo stabulato, cioè il bestiame viene sottoposto ad un processo di ingrasso accelerato nelle stalle con mangime a base di cereali ed enorme spreco di risorse.

Nel Sud America, dove l’allevamento è praticato allo stato brado, per ricavare spazi da destinare ai pascoli si è proceduto a massicce deforestazioni con le ben note conseguenze in tema di mutamenti climatici e processi di desertificazione. Passando ad esaminare la questione ambientale, quali sono le ricadute comportamentali di tali colossi alimentari? Nell’ottica della politica dell’immagine, le multinazionali prestano particolare attenzione all’aspetto ecologico e si sforzano di apparire come aziende leader, rispettose delle norme a tutela dell’ambiente e capaci di promuovere nei loro clienti il rispetto per la natura.

Si impegnano in campagne pubblicitarie nelle quali asseriscono di far ricorso ad imballaggi a ridotto impatto ambientale, di provvedere alla raccolta e al riciclaggio dell’olio di frittura, di tenere puliti gli spazi antistanti il ristorante e di promuovere nei clienti una coscienza ecologica rispettosa dell’ambiente, quale mera acquisizione indiretta di input comportamentali recepiti all’interno dei locali, come quello di gettare i rifiuti nei contenitori, atteggiamento che poi sarà rivolto anche all’esterno come riflesso condizionato. Ma, nonostante gli sforzi compiuti, le catene di fast food non possono essere considerate eco-compatibili. Come asserisce Terzano (www.foreverdecalabria.it), la scelta di standardizzare i prodotti rendendoli uguali per dimensione, aspetto e gusto ad ogni latitudine e ad ogni stagione, comporta un’inevitabile riduzione delle varietà genetiche locali e il ricorso alle biotecnologie.

Grazie alle scelte effettuate, ad esempio, si è avuta l’estensione a livello planetario, della Burbanck, una varietà di patata presente prima soltanto nel Nord America oppure della Iceberg Lettuce, una specie di insalata tipica della California. Ugualmente anti ecologico è il ricorso sistematico a prodotti congelati che, oltre a determinare elevati consumi di energia, ha la necessità di grossi spostamenti di merce dai pochi punti di produzione ai molti fast food sparsi nel mondo. Non altrettanto rispettosa dell’ambiente è la scelta dell’usa e getta che causa uno spreco di materie prime ed una produzione di grandi quantità di rifiuti.

La cultura della “fastizzazione” risponde alle esigenze di una società improntata sulla velocità che non può concedersi pause lunghe e dove mangiare si riduce solo ad una mera funzione organica. Si tende ad azzerare tutto e a consumare una pausa che ha ripercussioni negative sull’ambiente, violentandolo e distruggendolo lentamente.

Un’alimentazione che abbonda di carne non è solo dannosa per l’individuo, ma lo è anche per l’ecosistema che lo ospita e, quindi, per l’intero pianeta. Come illustra Safran Foer nel suo bestseller “SE NIENTE IMPORTA”, sappiamo con molta, molta sicurezza che gli allevamenti animali sono la causa principale del riscaldamento globale, eppure ancora poche persone ne parlano e, ancora meno è il numero di quelli che si preoccupano della provenienza del cibo che mettono a tavola.

Oggi, il potere mediatico del cibo si è ampliato perché esso non solo comunica cultura materiale, tradizione, emozioni, sapori e profumi, ma svolge sempre più un ruolo importante per la promozione del territorio. Occorre rivalutare la cultura locale attraverso tecniche di produzione non invasive e volte ad armonizzare produzione agricola ed ambiente. Agriturismo, turismo rurale, le strade del vino e dell’olio, le numerose sagre, testimoniano la necessità della “naturalità” nel cibo.

L’agricoltura biologica costituisce un traguardo da realizzare per ritornare alla natura ed instaurare, nonostante le tendenze e le mode alimentari, un nuovo rapporto col nostro eco-sistema. Tecniche che si basino sulla produttività e fertilità del suolo e siano rispettose dell’ambiente e del paesaggio possono, forse, evitare che l’uomo con il suo habitat venga fagocitato dalle cibarie da lui stesso prodotte. L’agricoltura biologica riduce drasticamente l’impatto di input esterni attraverso l’esclusione di fertilizzanti, pesticidi e medicinali chimici di sintesi.

Come sottolinea Stacchini (1996), l’agricoltura biologica è un vero e proprio atto volontario, è una scelta consapevole, è un codice di comportamento nella prassi agricola che il produttore si dà con l’obiettivo di recuperare le caratteristiche originarie del prodotto vegetale favorendo il ritorno ad una agricoltura condotta secondo natura. Ovviamente, l’obiettivo non è quello di ritornare al passato e, quindi, di rinnegare le grandi innovazioni tecnologiche e le importanti scoperte scientifiche, ma di promuovere un nuovo modello di produzione agricola capace di coniugare attività economica e salvaguardia della natura stabilendo un rapporto di armonica convivenza tra uomo e ambiente.

I.C. VITTORINI N. 15 MESSINA.

Rossella Martelli

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