lunedì, Aprile 29, 2024
CulturaI.I.S. Sciascia Fermi Sant'Agata Militello

L’angoscia del giovane Pirandello

“Tu mi scrivi da un bosco, io ti rispondo dal caos.”

La scrittura è elegante, figlia di quell’Ottocento che insegnava a scuola l’ortografia, la firma in fondo è di Luigi Pirandello ventenne.

Il ventisette agosto 1887, nella campagna agrigentina, il sole picchia e le cicale friniscono.

Pirandello prende carta e penna e scrive al suo più caro amico di giovinezza, l’ex compagno di liceo del convitto nazionale di Palermo, con cui aveva condiviso una camera in una pensione in via “Maestro d’Acqua”, oggi via Francesco Raimondo. Un tassello della vita del drammaturgo quasi sconosciuto, un carteggio custodito come un tesoro da Vincenzo Faraci, nipote di Carmelo Faraci, e da Teresa Bordonaro Faraci, mia nonna, pronipote di Carmelo.

Per essere più precisa, l’amicizia tra i due giovani era iniziata, a detta di nonna Teresa, quando il padre di Pirandello, dopo la crisi delle sue aziende di zolfo, era andato a Sant’Agata di Militello per tentare di entrare nel commercio degli agrumi con Don Vincenzo Faraci, papà di Carmelo, proprietario terriero e agente della società di navigazione “Florio Rubbattino”.  Fu allora che i due genitori decisero di affittare ai figli una stanza a Palermo per farli studiare insieme.

Trascrivo per intero una delle lettere che nonna Teresa ed io consideriamo la più bella, perché parla di un sentimento caro a tutti, l’amicizia, quella vera, che a volte per futili motivi può incrinarsi, ma se è vera amicizia basta poco perché si riaccenda.

Porto Empedocle 18 agosto 1887

 

Scorri questa mia lettera e, se la grafia non mi ti svela, guarda all’ultimo la firma.

Nel rileggere questa mattina, a caso, senza saper che fare, tutte le carte dei miei amici, morti, mal vivi, e vivi per tormento, mi è venuto un cattivo pensiero e mi son detto: – questo che ho tra mani è un piccolo cimitero, e tante speranze, illusioni, sogni ed affetti vi giacciono sepolti!

Uno fra gli altri, morto non si sa di che, e seppellito in una tua lettera piena, quasi per ischerno, di affettuosa e fraterna carità, mi è venuto innanzi ridendo e mi ha rammentato le più belle e care avventure della mia vita -oh guarda un po’ – mi son detto – a questo piccolo morto, così gentilino com’è, il freddo e il silenzio non giovano gran fatto! -come hai nome tu? piccolo morto! E lui: – amicizia! – oh caro tanto! Vuoi andare un po’ a spasso? Ti farà bene. La tua fossa pare una cuna, e tu vi stai freddo, freddo, che non si dice. Vuoi tu andare? Ti dirò io dove.

Carmelo, lo mando a te: se non ti dà noja, carezzalo ancora una volta.

Il poverino è stato con noi più tempo, e sotto lo stesso tetto.

E tu dovresti amarlo tanto quanto io. I nostri futili torti lo hanno prima ammalato; la nostra stupida negligenza l’ha poi ucciso, e senza considerazione del passato e senza pena dell’avvenire.

Ora, dopo tanto, e non so come, io lo rivedo, e non posso, per quanto voglia, non sentirne pietà. Non so quale forza mi spinga a scriverti, a raccomandartelo con calore vivo d’affetto; ma è voce che move da questo piccolo cimitero che mi sta dinanzi, e le parole hanno spine e fanno pena.

Spero che a quest’ora tu sia pienamente risanato. Se vuoi, rispondimi; o altrimenti rimetti il morticino nella fossa e credi pure, come io credo, che quest’oggi, i morti, come le mummie di Federico Ruysch, hanno parlato.

                                                                                                                Firmato Luigi Pirandello.

 

Pirandello fa riferimento all’amicizia, personificandola, facendone una creatura parlante. Ciò mi fa ricordare il motivo ricorrente della sua concezione della vita, sospesa tra fantasia e realtà, di cui in questa lettera ci sono già i primi accenni. Mentre continuavo a leggere il carteggio un po’ ingiallito con nonna Teresa, che ogni tanto mi aiuta ad interpretarne la scrittura, mi ha colpito la lettera del 23 settembre 1887, nella quale il giovane scriveva all’amico Carmelo: “Se non altro, ho fiato ancora per fis

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