venerdì, Aprile 19, 2024
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Quando ad emigrare eravamo noi

L’emigrazione è oggi un argomento che ci riguarda sempre più, giorno dopo giorno, in quanto sono sempre più frequenti in Italia sbarchi di immigrati che scappano dalla loro terra d’origine a causa della miseria, delle persecuzioni politiche e religiose o della guerra.

Anche i nostri antenati, tra l’Ottocento e il Novecento, lasciarono l’Italia fuggendo dalla miseria nella speranza di trovare fortuna e, come gli immigrati di oggi, si trovarono ad affrontare pregiudizi, razzismo e occupazioni sottopagate. Tra tutti questi ne ricordiamo alcuni che hanno fatto fortuna, come Salvatore Ferragamo, l’attore Rodolfo Valentino o la famiglia Bastianich, mentre non ricordiamo tutti coloro che restarono prigionieri nelle periferie di New York o di Buenos Aires, che tornarono indietro sconfitti e disperati.

I primi gruppi che lasciarono l’Italia erano piemontesi, lombardi e veneti e si diressero in Europa, in Russia, Francia, Belgio e Germania, dove furono odiati dai lavoratori locali e furono sottoposti a persecuzioni. In seguito i contadini del Sud e delle Isole, spronati da una crisi secolare, partirono anch’essi per raggiungere l’America del Nord o quella del Sud. Brasile e Argentina furono i Paesi che ospitarono più italiani, vista la richiesta di lavoratori agricoli e la concessione di abitazioni, animali da lavoro, utensili e sementi fino al primo raccolto e infine l’esonero da ogni imposta e contribuzione.

Meno accoglienti furono, invece, gli Stati Uniti, dove la vita forniva grandi occasioni ma falciava quelli incapaci di integrarsi. Quelli diretti verso l’America del Nord ci hanno lasciato delle testimonianze molto amare riguardo alla loro avventura. Le premesse del viaggio venivano poste nelle campagne da gruppi di agenti che setacciavano i latifondi, dove convincevano la gente ingenua ed ignorante a pagarsi il viaggio, promettendo guadagni favolosi in terre lontane. In questo modo quelli che si lasciavano conquistare da questi miraggi facevano di tutto per avere il biglietto e, quando era nelle loro mani, si recavano in uno dei grandi porti da cui partivano le navi per l’America.

Attrezzati di una valigia di cartone, gli emigranti arrivavano finalmente al porto spesso prima del giorno prestabilito per l’imbarco e quindi costretti a pernottare sotto i portici o in ritrovi di fortuna. Addirittura in questi accampamenti molto spesso c’erano ragazzini che emigravano da soli all’età di dodici o tredici anni. Il passaggio sulle navi durava dai dieci ai dodici giorni e avveniva in condizioni bestiali: le stive erano usate come immensi dormitori che ospitavano uomini, donne e bambini senza nessuna privacy e con servizi igienici insufficienti; vivevano in un puzzo insopportabile nel quale al sudore dei corpi mai lavati si aggiungeva l’odore degli escrementi e tutto ciò fu causa di continue malattie. Dopo questo drammatico viaggio gli emigrati arrivavano negli Stati Uniti, dove venivano sottoposti ad una serie di controlli nell’isola di Ellis Island.

Qui venivano visitati uno per uno da un’apposita guardia medica e, se risultavano malati nel corpo o di mente, venivano rispediti in patria; più tardi cominciarono ad essere respinti anche gli analfabeti e tutti quelli che non sapevano l’inglese. Agli imprenditori americani gli italiani apparivano comunque come una manodopera di secondo ordine, per lavori che nessuno americano voleva fare. Essi trovavano quindi lavoro soltanto come manovali per la costruzione di ferrovie e fognature, oppure erano impiegati per scavare tunnel, scaricare merci dalle navi e costruire città, soprattutto grattacieli. Gli italiani erano esclusi da paghe alte e lavori migliori anche a causa del pregiudizio razziale, che era forte presso tutti i paesi ospiti e anche come lavoratori non qualificati erano all’ultimo posto nelle preferenze dei sopraintendenti alla costruzione di ferrovie.

La rivincita dei lavoratori italiani negli Stati Uniti si concentrò invece nel settore alimentare poiché in tutte le principali città questi aprirono attività commerciali. Quando i primi gruppi di emigrati arrivarono a destinazione, poi, le famiglie cominciarono a ricevere lettere, fotografie e le rimesse, cioè il denaro per i parenti in patria. Da questo punto di vista, nonostante i moralismi, l’emigrazione fu più che vantaggiosa per il governo italiano: il denaro delle rimesse, infatti, permise la formazione di un pubblico di consumatori e di un mercato interno che facilitò lo sviluppo del commercio e dell’industria e l’aumento dell’alfabetizzazione.

Riflettiamo allora che l’immigrato che oggi arriva in Italia e in tutta Europa è praticamente nelle stesse condizioni, se non peggio, di quelle dei nostri antenati del secolo scorso. Pensiamoci, quando certi atteggiamenti di rifiuto degli stranieri si diffondono intorno a noi…

Anna Scilipoti

Classe III, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.

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