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La leggenda delle “Teste di Moro”

Le ceramiche siciliane trovano la loro massima espressione nelle Teste di Moro di Caltagirone, luogo principe per la produzione di ceramiche di altissima qualità. Una produzione divenuta nei secoli fiore all’occhiello della città, anche per via del suo ricco passato di dominazioni greche, bizantine, arabe, genovesi e normanne, che hanno portato (in particolare durante la presenza greca e araba) allo sviluppo della preziosa arte dei ceramisti siciliani.

Le maestose “Teste di Moro”, in siciliano note anche come “Graste”, che da secoli arricchiscono e colorano le balconate di questa magnifica terra, sono un tipico esempio di come storia e leggenda stiano alla base di questa produzione artistica. Figlie di una tradizione millenaria, queste prestigiose opere d’arte dalla raffinata manifattura artigianale, non nascono da una deliberata fantasia artistica, ma trovano tutte un’origine comune in un’antica leggenda. Protagonisti di questa struggente vicenda un giovane moro ed una bellissima fanciulla siciliana. Secondo la leggenda, intorno all’anno 1000, nel pieno della dominazione dei Mori in Sicilia, nel quartiere arabo di Palermo “Al Hàlisah”, oggi chiamato Kalsa, una bellissima fanciulla viveva le sue giornate in una dolce quanto solitaria quiete, dedicando le sue attenzioni all’amabile cura delle piante del suo balcone. Dall’alto della sua balconata fiorita, ella venne un giorno notata da un giovane, un moro. Sopraffatto da una violenta passione per lei, il giovane Moro non esitò un attimo a dichiararle il suo amore. La giovane, colpita dalla promessa d’amore ricevuta, accolse e ricambiò con passione il sentimento dell’ardito corteggiatore. Eppure il giovane, che non si era fatto scrupolo alcuno nell’abbandonarsi alle più dolci profusioni amorose, in cuor suo celava un gravoso segreto: moglie e figli lo attendevano difatti in Oriente, in quella terra nella quale egli doveva fare ritorno.

La fanciulla, distrutta nell’apprendere una tale notizia ed amareggiata per quell’amore tradito che si accingeva ora ad abbandonarla, fu colta da un’ira funesta che la spinse inesorabilmente ad imboccare la strada della vendetta. Ella meditò di cogliere il momento di maggiore vulnerabilità dell’uomo per ricambiare l’impietosa slealtà precedentemente subita. Così nella notte, mentre egli caduto in un sonno profondo riposava ignaro della sua sorte, colse l’attimo propizio e lo colpì mortalmente. Il moro, che l’aveva amata e che si accingeva a partire, ora non l’avrebbe più abbandonata. Decise inoltre che il volto di quel giovane, a lei eppur caro, sarebbe dovuto rimanere al suo fianco per sempre, perciò senza esitazione alcuna tagliò la testa del giovane creando con essa un oggetto simile ad un vaso e vi pose all’interno un germoglio di basilico. La scelta di piantarvi del basilico fu sancita dal fatto che, come ella ben sapeva, questa odorosa pianta dal greco “Basilikos”, si accompagna da sempre ad un’aura di sacralità, rappresentando difatti l’erba dei sovrani. In tal modo, nonostante il terribile atto compiuto, la giovane perseguiva il dissennato amorevole fine di continuare a prendersi cura del suo adorato. Depose infine la testa sul suo balcone, dedicando ogni dì alla cura del basilico che in essa cresceva. Ogni giorno le sue lacrime bagnavano la pianta regale, che prospera cresceva divenendo sempre più florida e rigogliosa. I vicini, pervasi dal profumo del basilico e guardando con invidia la pianta che vigorosamente maturava in quel particolare vaso a forma di Testa di Moro, si fecero realizzare vasi in terracotta che riproponevano le stesse fattezze di quello amorevolmente custodito dalla fanciulla. Oggi ogni “Testa di Moro” che viene prodotta reca una corona, un elemento sempre presente volto a riproporre la regale pianta che originariamente impreziosiva la testa del giovane moro protagonista della triste vicenda.

Secondo un’altra versione della leggenda, invece, quella ripresa dal Boccaccio nella sua novella “Lisabetta da Messina”, la fanciulla siciliana sarebbe stata invece di nobili origini e visse un amore clandestino con un giovane arabo. Questo amore impossibile venne però ben presto scoperto dai fratelli ed il disonorevole atto punito con la morte di lui. La ragazza, tuttavia, scoperto il luogo della sepoltura, staccò il capo al cadavere e lo ripose in una “Grasta” piantandovi del basilico che innaffiava con le sue lacrime. Quando i fratelli capirono cosa ci fosse nel vaso e glielo portarono via, la fanciulla morì di crepacuore. Si tratta di due leggende, quindi, molto simili ed entrambe molto diffuse ma che rendono questo prodotto dell’arte siciliana ancora più affascinante.

 

 

Rita Chiara Scarpaci

Classe II, Scuola Sec. di 1° grado “Foscolo” di Barcellona P.G.

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