martedì, Marzo 19, 2024
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“I posti hanno bisogno di una storia per sopravvivere”

La luce tagliente del tramonto dietro le colline, alle spalle della città, disegnava piani visivi successivi, scenari segmentati che scivolavano sul mare, animato dalle scie trasversali e longitudinali delle imbarcazioni. Fin dove lo sguardo poteva arrivare, oltre l’ultima lingua di terra all’orizzonte.

Rappresentare Messina significa raccontarla sul mare, sia allungando visivamente l’arco del porto verso la Calabria, per chi guarda dalla Sicilia, sia comprimendola sui Peloritani, per chi proviene dalla Penisola. Messina è il suo porto, lo Stretto, la luce che ne circoscrive l’ellisse visibile dilatando le ombre o riducendole.

Lo Stretto può non finire mai e chi va per mare, lo sa bene: dalla rotta di Napoli o per chi viene dalla Calabria jonica, il canale si allarga e si restringe, estendendosi oltre il punto in cui l’occhio può arrivare, con piani visivi che sembrano scenari teatrali intercambiabili, fondali da sfilare l’uno sull’altro.

La città e il suo Stretto si congiungono interiormente quando la luce cristallina dei pomeriggi assolati di fine primavera o d’inizio autunno penetra l’aria ripulita dalle foschie e, avvicinando le sponde, mette a fuoco gli edifici, le strade, le cornici delle finestre, i balconi, il fogliame degli alberi e le ombre portate.

Quando alzandosi appena più in alto – nel punto di osservazione in cui ciò che è visibile non è così vicino da coprire lo sfondo, né troppo lontano da perdere d’identità – l’occhio dello spettatore può vedere ogni oggetto acquistare la sua giusta proporzione e ogni parte del tutto diventare soggetto singolare.

Raccontare una città che è cambiata troppe volte nella sua Storia, è un puro viaggio della mente, il lento roteare dell’immaginazione degli uomini dentro gli scenari immobili della Natura: così è Messina, più volte ricomposta e sempre diversa dopo ogni flagellazione sismica; non lo Stretto, altrettanto vario ma sempre simile a se stesso nello scorrere continuo delle stagioni lunghe e di quelle brevi.

Non esiste più la città del XV secolo, la prima di cui abbiamo raffigurazioni grazie ai dipinti di Antonello. Non ci sono più gli edifici di quel tempo, neanche i tracciati; nulla delle fiumare che la solcavano, libere allora di scorrere in superficie e, secoli dopo, nascoste sottoterra. Le Mura Normanne che chiudevano l’abitato sul porto si trasformeranno, nel XVII secolo, nell’effimera Palazzata, meravigliosa scenografia a termine e potente omaggio visivo per gli occhi di poche fortunate generazioni.

Il confine esterno della città, il suo limes, cambiava totalmente già nel XVI secolo, con le Mura Spagnole che davano perimetro all’orografia dei luoghi in una nuova forma – fintamente conclusa – tranciata nel 1783 dal primo segno visibile delle forze della Terra. All’alba del ‘900, da qualche secolo era già sparita la Messina di Antonello, tra cancellazioni, lacerazioni e sovrapposizioni; certamente non diversa dal destino di molte altre città, ma trasfigurata in attesa del disastro più grande, della sua ennesima immagine in articulo mortis.

La Messina del ‘400 non ebbe altre cronache visive oltre a quelle consegnateci dal grande pittore, ma – come un’apparizione improvvisa – può emergere ancora adesso, ricostruendosi nel racconto trasversale di una storia frammentata, narrata con la logica di chi ricuce un vestito strappato mettendo insieme, grazie a un filo nuovo, piccoli pezzi simili di tessuto antico.

Rappresentazione come narrazione. Possono essere definiti, infatti, come racconti liquidi, i contratti dei notai dell’epoca, scampati ai disastri; le “non cronache” di quel tempo che possono descrivere – riunite insieme – la città del XV secolo, rappresentandola per trasposizione.

Ci raccontano della compravendita di tessuti o dell’affitto di un’imbarcazione, ci illuminano sul prezzo di certi beni comuni ma ritraggono, anche, l’abitazione ordinaria di un popolano o la magna domus di un patrizio, i quartieri nobili o le contrade degli artigiani, citando i luoghi e disponendoli all’interno dell’abitato, come i ricordi dentro una mappa mentale, come dei punti scuri su un foglio bianco.

Ogni punto, allora, ha un nome che diventa rimando emotivo, come in una dissolvenza lenta. Dal nulla dei punti emergono i rumori e la polvere delle strade, le voci degli abitanti, le attività immaginate, gli odori inimmaginabili; ancora gli oggetti, i vestiti, i volti: quelle facce che avremmo voluto conoscere per decifrarne i pensieri, le abitudini o le storie private. Quelle facce che sono ancora rimaste, forse, da qualche parte.

Poi, improvvisamente, fuori dalle Porte delle Mura Normanne che proteggevano la città dal vento dello Stretto e riscaldavano gli edifici alle loro spalle, appare il mare: lucido, tagliente, luccicante; irresistibile padrone di uomini ed eventi; ancora il porto e le barche, le navi, i traffici, le mercanzie sulle banchine, come in tutti i porti del Mediterraneo.

Come in quelle città che furono e sono come Messina, punto geografico medio sul tragitto incrociato delle rotte dei mercanti: da Venezia a Tunisi e le Fiandre o verso Napoli, la capitale quattrocentesca di Re Alfonso. Poi più su: Pisa, Genova e, oltrepassando a nord il Mar Tirreno, la Provenza e la Catalogna.

Allora la Storia si sposta, insieme al punto di vista sulle cose: non abbiamo più bisogno dei tracciati viari immaginati solo attraverso i resoconti notarili di una realtà distrutta dai disastri successivi. Alzando il punto di osservazione e allontanandoci sul mare tutto è più chiaro, anche l’indefinita città molte volte perduta, paradosso visivo e concettuale da cui dobbiamo distanziarci per poter meglio vedere.

Ora non vale più la singolarità dell’edificio ma quella dell’intera città, baricentro ottico di un tessuto connettivo costruito sul mare e che vive per esso. La Storia ha un luogo; quel luogo racconta la sua Storia.

 

Francesco Galletta

 

Il titolo “I posti hanno bisogno di una storia per sopravvivere” è una frase del regista Wim Wenders a una conferenza alla Triennale di Milano del 1994. È ripresa in P. F. Colusso, Wim Wenders; paesaggi, luoghi, città, Universale Architettura n. 41, Testo & Immagine, Torino 1998, p. 77.

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